“Niente grazie, l’avete voluto voi”
Intervista a Paolo Bicego, responsabile tecnico dei progetti di Insieme si può in Uganda
Ciao Paolo, da dove sei collegato?
Sono qui nell’ufficio di ISP a Moroto, sono appena tornato dalla visita ad alcuni progetti.
Puoi farci una tua breve presentazione?
Sono originario di Valdagno, in Provincia di Vicenza, e ho 33 anni. Sono elettricista ed elettromeccanico, e da aprile 2021 sono in Uganda come responsabile tecnico dei progetti che Insieme si può sta realizzando qui, in particolare nel Karamoja. Conosco ISP da anni, e non è la prima volta che lavoriamo insieme.
Dove e quando inizia il tuo legame con l’Africa, in particolare con l’Uganda?
Ho iniziato a venire in Uganda a 7 anni, il primo viaggio con i miei genitori per andare a trovare Marilisa (Battocchio, attuale responsabile ISP Uganda) e suo marito, che sono originari del Vicentino come me. Da lì abbiamo sempre sostenuto i progetti missionari di Fratel Elio Croce, di Suor Giovanna Calabria, mio padre è venuto anche durante la guerra. Per i 18 anni ho chiesto in regalo ai miei genitori il passaporto “per andare in Africa”, e nel 2007 sono venuto per la prima volta da solo, un mese in Nord Uganda con Fratel Elio: la guerra era finita da 2 anni, ma ricordo ancora l’atmosfera di disfacimento totale che c’era.
Ho fatto poi esperienze in Guatemala, a Nzara in Sud Sudan, poi dal 2013 mi sono fermato a Gulu per lavorare all’orfanotrofio: ho imparato tanto da Fratel Elio, mi ha insegnato come vivere in Africa, come sapersela cavare con poco, non è stato facile ma ho avuto anche tante soddisfazioni.
Come ti descriveresti in tre parole?
100% pratico, 100% orso, ma anche un po’ buono dai…
Come stai collaborando con l’Associazione?
Attualmente, come dicevo, sono a Moroto, dove seguo i progetti in loco, sempre e comunque in coordinamento con la sede di Kampala. Mi occupo della realizzazione concreta delle azioni previste dai progetti, ma anche di contabilità e della gestione dello staff locale.
Cosa stai facendo nello specifico in questo periodo?
Mi sto dedicando in particolare ai progetti legati all’acqua: abbiamo appena finito di perforare 5 nuovi pozzi, e contemporaneamente andiamo a ripararne altri che, per vari motivi, sono inutilizzabili. Poi i progetti agricoli, legati direttamente a quelli idrici: con le comunità cerchiamo di ragionare non solo sull’utilità immediata di avere una fonte d’acqua pulita per bere, lavarsi, cucinare, ma anche su un utilizzo in prospettiva, cioè l’autosostentamento attraverso l’agricoltura.
Inoltre, dato che le scuole sono ancora chiuse a causa del lockdown per la pandemia, stiamo anche facendo interventi di manutenzione sulle cucine, le stufe e le canne fumarie di questi edifici; tra l’altro le canne fumarie le abbiamo realizzate interamente noi di ISP qui a Moroto.
Da dove parte l’idea di un progetto, ad esempio la costruzione di un pozzo?
Con lo staff locale abbiamo cercato e cerchiamo di parlare continuamente con i singoli villaggi del Karamoja, per capire di cosa veramente hanno bisogno. È emersa quasi sempre la parola ngakipi, “acqua”, qui spesso le persone bevono dalle pozze di acqua piovana quindi la necessità è abbastanza evidente: ci siamo attivati per costruire alcuni pozzi, contando che qui ci sono zone molto aride e non è così semplice trovare le falde sotterranee. Quando le comunità ci ringraziano gli diciamo: “Niente grazie, l’avete voluto voi”.
Hai evidenziato la ricerca del dialogo come punto di inizio per un progetto: cosa significa per te la parola “scambio”?
Tempo e pazienza, a maggior ragione se tra culture diverse. Perché lo scambio sia efficace bisogna poi avere chiari il contesto e le premesse. Una parte non deve imporsi sull’altra, ma va cercata la costruzione di un ragionamento assieme.
E “partenariato”?
Collaborazione, con chi vive quotidianamente una situazione o un territorio. Preferisco lavorare e ragionare sulla concretezza della realtà e non sulle idee teoriche o troppo generiche, in questo mi sento molto veneto!
Quale, secondo te, la strada per un reale sviluppo sostenibile?
Lo sviluppo sostenibile non deve ridursi ad essere un concetto di moda: l’economia circolare è sempre esistita, basti pensare ai nostri nonni in Italia 70-80 anni fa. Qui in Karamoja la sostenibilità è la quotidianità: la terra viene lavorata a mano o con i buoi, la pacciamatura degli orti è fatta con materiali naturali, così come la concimazione. Le immondizie, la plastica che inquinano queste zone sono state imposte dall’esterno.
Quindi?
Sviluppo sostenibile per me è investire anche poco, ma con oculatezza e a misura del contesto in cui si agisce. Con investire intendo in formazione e in strumentazione: scambio di conoscenze, acquisto di strumenti per rispondere a bisogni o risolvere problemi, autonomia di azione, spese mirate: questa è l’idea alla base ad esempio del progetto che abbiamo avviato da poco chiamato “No tools, no work”.
Per concludere, cosa significa per te “essere ISP”?
Collaborare tra Italia e vari Paesi del Sud del mondo in vari settori; essere in una rete di persone che, con il sacrificio di ognuno, cerca di portare una speranza per il futuro di tutti, senza escludere nessuno.