Non possiamo abituarci all’emergenza
Giovanni Abriola ha conosciuto ISP ancora prima della sua nascita, avendo condiviso con Piergiorgio Da Rold il viaggio umanitario in Uganda nel luglio 1982, da dove poi è nato tutto. Da 2 anni è tornato a collaborare con l’Associazione, nell’occasione di un viaggio per portare aiuti in Ucraina, condiviso ancora con Piergiorgio. Con lui parliamo di emergenze, avendo visto con i propri occhi questi scenari: la questione cardine è il non “assuefarsi”, il non dimenticare.
Presentati brevemente.
Sono nato a Casoria, in Provincia di Napoli, nel 1955 e dal 1997 vivo a Udine. Sono in pensione da 3 anni, ho fatto il geometra e poi il tecnico in Motorizzazione Civile.
Come vi definireste in tre parole?
Una testa dura, uno che non si ferma davanti alle difficoltà. E poi cerco di essere una persona che dà una mano agli altri.
Come definiresti ISP in tre parole?
È un’associazione di persone che condividono lo stesso modo di pensare, si percepisce che non fanno le cose per lavoro o per dovere, ma perché ci credono profondamente.
Come avete conosciuto ISP?
Ho conosciuto ISP più a fondo negli ultimi due anni, mentre ho incontrato Piergiorgio Da Rold nel luglio 1982 perché siamo stati compagni in quel primo viaggio in Uganda, che era il primo anche per me, anche se lo facevamo ognuno con le proprie motivazioni. Con Piergiorgio e gli altri compagni di quel viaggio ci siamo poi incontrati vent’anni dopo, poi ci siamo un po’ persi di vista anche se io ho continuato a seguire le attività di ISP attraverso il giornalino mensile che ricevevo a casa e io stesso ho portato avanti diverse iniziative umanitarie e solidali con associazioni sia di Casoria che qui in Friuli.
Proprio con una di queste a dicembre 2022 stavo organizzando un viaggio per portare aiuti in Ucraina, ho contattato Piergiorgio per chiedergli una collaborazione per il reperimento di generatori elettrici e gli ho anche chiesto se volesse venire con me: ci ha pensato 10 secondi al massimo prima di dirmi di sì… Siamo sempre stati un po’ dei pazzi in queste imprese! Fin da quel primo viaggio in realtà, a inizio anni Ottanta l’Uganda era uno dei Paesi più pericolosi del mondo.
Cosa ha fatto scoccare la “scintilla” dell’impegno concreto?
Ho sempre avuto una propensione per l’aiuto agli altri fin da piccolo, ma mi mancava la spinta per agire in maniera più ampia. Quando ho sentito parlare don Vittorione in televisione ho deciso di fare quel passo in più e di agire, un passo che sembra banale, ma è il più difficile e il più straordinario.
Qual è la “benzina” che nel tempo ha tenuto vivo e fatto proseguire quest’impegno?
Come dicevo, fin da piccolo ho ricevuto un’educazione in famiglia basata sui valori della solidarietà e dell’attenzione verso il prossimo, e attraverso questi “occhiali” ho interpretato ogni mia azione, ogni viaggio: è questo quello che mi manda avanti, che alimenta il mio impegno di continuo… Quindi più che di benzina, che si esaurisce e va ricaricata, parlerei di pannelli solari, che si autoalimentano!
Il tuo impegno si è spesso profuso in situazioni di emergenza: cosa significa per te agire in questa dimensione?
La difficoltà più grande nell’emergenza è far capire alle persone che l’emergenza non finisce nel momento in cui porti l’aiuto immediato, che paradossalmente è il più “facile” da portare e ovviamente è utile in quel momento, ma il problema è il dopo: l’emergenza non finisce mai con gli aiuti portati subito.
La sensazione che si ha è che le emergenze vengano dimenticate con troppa fretta e troppa facilità…
Faccio un esempio: di recente mi sono recato in Turchia per conto di ISP a portare aiuti in un campo profughi siriano, e sembra che nessuno sappia più niente della guerra in Siria, un conflitto disastroso che va avanti da oltre un decennio, ma sembra quasi che sia finito perché non se ne parla più. O penso alla guerra in Ucraina ora che l’attenzione è sulla guerra tra Israele e Palestina: se ne parla molto meno, siamo assuefatti dalla sensazionalità e superficialmente poi passiamo oltre, c’è il momento del boom e altrettanto velocemente poi ce ne dimentichiamo.
Cosa può fare ognuno di noi per evitare questa pericolosa “assuefazione”?
Qui purtroppo siamo “super vaccinati”, non è semplice… Secondo me bisogna parlarne, cercare di tenere alta l’attenzione, oltre che sostenere concretamente chi è sul campo nell’aiuto alle persone coinvolte. Io personalmente cerco di farlo continuamente, avendo visto con i miei occhi diverse situazioni emergenziali e aver provato delle sensazioni forti, spesso tristi e di impotenza. Ma proprio quelle emozioni mi permettono di comunicare meglio la situazione e trasmettere le vere emozioni che ho provato agli altri, poi se chi ascolta si sente coinvolto bene, altrimenti non importa, di sicuro il mio impegno non smette.
Vuoi raccontare un episodio significativo che ricordi tra i numerosi viaggi che hai fatto?
Quello che porto nel cuore per il solco che ha lasciato è il primo viaggio in Uganda nel 1982. Il più forte, e anche il momento in cui ho avuto realmente paura, è il viaggio che ho fatto in Siria nel 2014, ho rischiato sul serio più volte di morire: una volta, con i fucili puntati addosso, ci ha salvato il pianto di un neonato che in qualche modo ha fermato i soldati.
Cosa ti auguri per il futuro di Insieme si può?
Cento, mille volte più di quello che sta facendo ora, perché ho visto come ISP lavora, le persone che ricevono un aiuto ringraziano con gli occhi. Anche perché è un’associazione che riesce ad arrivare a chi ha bisogno senza fare spese folli di gestione, togliendo il superfluo e investendolo proprio per fare ancora di più del bene.
Per concludere, cosa significa per te essere ISP?
Già il nome dice tutto: è il fare insieme, è l’essenza della vita.