Al campo di Nakivale
Bambini, bambini, bambini ovunque. Non può essere che questa l’impressione dominante, quella che ti rimane impressa nella mente più delle altre, pur forti anche loro, dopo la visita al campo profughi di Nakivale, situato nel sud dell’Uganda a pochi chilometri dalla Tanzania. Dalla capitale Kampala sono circa 350 chilometri di strada asfaltata ma disseminata di innumerevoli (e stressanti) dossi che rallentano moltissimo la velocità e aumentano i tempi di percorrenza. Sta di fatto che, partiti da Kampala alle 7 del mattino, raggiungiamo il campo solo alle 2 del pomeriggio.
Arrivati a destinazione siamo stati accolti dal parroco, padre Deo, da un seminarista e da alcuni catechisti. Dopo una veloce presentazione, padre Deo ha proposto una visita alla Chiesa principale e ai locali della sua missione, facendoci subito notare l’approvvigionamento d’acqua presente: solo cisterne collegate ai tetti per recuperare l’acqua durante le piogge, che per fortuna quest’anno sono state abbondanti. Il campo è attiguo al lago di Nakivale, ma praticamente non esistono pozzi funzionanti. Le Nazioni Unite sono presenti nel campo da diversi anni e attraverso il World Food Programme distribuiscono cibo e spesso anche acqua usando i loro camion cisterne, ovviamente in quantità misurate rispetto alle famiglie. Esistono anche degli impianti che pompano l’acqua dal lago, che viene poi purificata e distribuita attraverso dei rubinetti installati nei diversi centri. La popolazione deve mettersi in fila per riuscire a riempire la propria tanica, aspettando molto perché in effetti l’acqua viene aperta solo per un tempo limitato durante la giornata (5 ore!).
Il parroco ha parlato della presenza di 120.000 adulti provenienti da Burundi, Rwanda, Congo, Eritrea, Etiopia, Sud Sudan, Somalia. Il numero dei bambini è di fatto sconosciuto, ma probabilmente è di almeno 3 volte tanto. Lui celebra le S. Messe in almeno 4 lingue diverse, per le varie comunità presenti. Oltre alla Chiesa principale segue altre 14 cappelle dove, in ognuna, opera un catechista. Con lui, il seminarista e un catechista, siamo andati a vedere una cappella: impressionante il numero di bambini, di età compresa tra 1 e 10-11 anni, che spuntavano da ogni casetta. Tutti sorridenti, felici, pronti a salutare con entusiasmo i passanti.
Nell’intero campo sembra che siano operanti solo 3 scuole elementari ed una sola scuola superiore, dove ogni classe, dai loro racconti, arriva ad avere anche 200 studenti. Molti sono quindi i bambini che non frequentano affatto, ma la loro fantasia non manca e sanno occupare il tempo, oltre che per il recupero dell’acqua e per aiutare i genitori a zappare il quadrato di terra destinata ad orto per la famiglia, anche per costruire con le plastiche giochi, sedie, alberi decorativi.
I tetti delle case sono costituiti per lo più da un pezzo di telone donato dall’ONU sistemato sopra un telaio di pali di legno che fanno da capriate. Sopra al telo vengono poste grosse zolle di terra e ramaglie in modo da evitare che vento e maltempo li facciano volare via. Chiaro sembra anche il tempo di permanenza della popolazione: vicino al centro, dove le case sono tutte singole, distanti un paio di metri una dall’altra e decorate con disegni di fango meno rossiccio, ci sono gli abitanti di vecchia data. Man mano che ci si allontana dal centro le abitazioni sono sparse e molto più piccole. Tanti infatti vivono lì da pochi mesi, altri da uno o due anni, ma, per la maggior parte, Nakivale è ormai il loro paese.
In effetti il campo esiste fin dagli anni ‘50, quando fu costituito per accogliere prima i profughi provenienti dal Rwanda, poi quelli dal Burundi, successivamente dal Sud Sudan, poi ancora dalla Somalia e, come già detto, dall’Eritrea o, ancor oggi, dal Congo, zona da cui viene la maggior parte degli attuali abitanti del campo. I profughi sono distribuiti su una zona di circa 180 km quadrati.
Sarà padre Deo a chiedere all’autorità locale il permesso per perforare i due pozzi che ISP si è proposta di finanziare. Ottenuta l’autorizzazione, la ditta di perforazione potrà inviare il geologo per i primi sondaggi e scegliere di conseguenza la zona migliore.
A lungo ci siamo interrogati sui problemi riscontrati durante la visita:
1) È evidente che il problema dell’acqua è quello più urgente, quello più grave, quello che costringe tanta gente (donne e bambini soprattutto) a passare ore in fila in attesa di riempire una tanica per portarla poi a casa, magari percorrendo vari chilometri. Come mai le Nazioni Unite, che gestiscono questo campo da sempre, non hanno perforato dei pozzi? Il lago è vicino e l’acqua non dovrebbe mancare. Forse l’acqua non è potabile perché salata? Perché non è stata potenziata la distribuzione di acqua pompata dal lago, costringendo la gente ad attingere anche dalle pozze formatesi nelle innumerevoli buche, frutto del prelievo di sabbia che viene usata per fabbricare i mattoni?
2) Perché così poche scuole, peraltro organizzate dalla parrocchia, e assolutamente spartane al punto che in molte non esistono porte, finestre, banchi ma solo un tetto di paglia (a volte mangiato dalle termiti), una lavagna e delle panche realizzate in mattoni?
3) Perché, al di là di 3 piccoli dispensari, non c’è nessun centro medico serio, cosa che in caso di emergenza costringe la gente a recarsi a Mbarara, distante 65 chilometri? Eppure il parroco ci ha confermato che lo scorso anno ci sono state anche due gravi epidemie di tifo e di brucellosi. Tutte domande a cui cercheremo di dare una risposta a breve in modo da poter avviare poi una concreta e efficace azione di aiuto e di supporto a questa popolazione.
Ma ritorniamo ai bambini. Una delle cappelle da noi visitate si è riempita immediatamente di 130 di loro. Lo so perché li ho contati in vista della distribuzione di una caramella a ciascuno. Volevo essere sicuro di averne per tutti e infatti, finite le caramelle, finiti (per fortuna) anche i bambini. Molti non sapevano cosa veniva loro dato e i più grandi dovevano spiegargli che per gustare la caramella bisognava prima togliere la carta che l’avvolgeva. Rientrati in parrocchia abbiamo scoperto che ci avevano anche preparato il pranzo a base di riso, banane fritte, carne… Sono già le 5 del pomeriggio, ma non possiamo proprio esimerci dal mangiare qualcosa. Ancora una volta l’ospitalità africana non si smentisce e ti stupisce sempre.
Facciamo ritorno a Mbarara per trascorrere la notte. Mentre cerco di prendere sonno non posso non rivedere dentro di me i volti sempre sorridenti di tutti quei bambini incontrati oggi. Mi vergogno un po’ per essermi lamentato del gabinetto della mia stanza: loro fanno i bisogni dietro casa, la doccia la fanno quando piove e i denti non se li lavano mai perché non sanno cosa siano dentifricio e spazzolino. Loro oggi hanno mangiato un piatto di polenta e fagioli, come probabilmente hanno fatto ieri e l’altro ieri. Loro staranno dormendo su una stuoia stesa sul pavimento di terra, in compagnia di formiche e di tante zanzare affamate.
Piergiorgio Lokirù Da Rold